Una virtù naturale

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Dalla stazione dei treni cammino verso casa, porto la bici a mano e risalgo la trionfale via Indipendenza come attraversare l’ampio letto di un fiume in secca, oppure come se ancora mi aggirassi fra le cortine degli alberi intorno ai quali serpeggiano i sentieri. In continuità fra ciò che resta delle colline intorno alla città e la sua architettura antica, come scavate nei fianchi della roccia queste infilate di archi e di volte sotto i portici e tutta questa teoria di pilastri e colonne. Deviare dal decumano massimo verso il corpo nudo di bronzo del dio Nettuno gigantesco sulla fontana, e la piazza Maggiore con la fabbrica di san Petronio dalla facciata incompiuta nei secoli, per metà di mattoni bruni, di terra cotta e rimasta alle piogge, ai venti, all’oscurità della notte incipiente che cade sul corpo nudo della basilica proprio come sulle spalle delle colline.

Non è solo la pietra che resta, ma lo stupore di una virtù naturale.

Di ritorno dai boschi nelle membra mi porto sempre una spossatezza radicale, quasi che la terra sotto il fogliame a ogni passo, e l’argilla per i greti delle correnti mi avessero impregnata di sale.

 

 

 

 

 

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