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Ngola la nuit – Serge Marcel Roche

 

 

 

Ngola la nuit

 

Ngola s’aborde aussi la nuit, avec des corps d’ombres, ses lumières presque passées, défaites et le fil de son œil qui tourne à l’angle d’un désespoir. On voit des mains gémir contre le mur des cours et des vies de non vivre marcher là pour s’offrir au risque de la peau — la vitesse de l’auto fractionne les désirs. On voit des faces dont les yeux n’accordent le regard qu’à la honte d’autrui et sa fierté secrète, aux plissures cachées de l’iris dans l’orbe du hasard. Veillent des mannequins sans bras, blancs d’un silence trop plastique. Leurs songes froids de choses meurent au fond des boutiques, derrière sur un peu d’eau flottent les rognures du jour, tous les cheveux coupés, des rajouts qui n’ont plus de tête. Là où plus loin les néons clignotent, ayant rabattu sa capuche, quelqu’un rentre le cœur éteint.

Ngola la nuit (son corps caché)

 

 

 

 

Ngola si avvicina la notte, porta con sé dei corpi di ombre, quasi passate e disfatte le sue luci e il filo del suo occhio che gira all’angolo di una disperazione.

Si vedono mani gemere contro il muro di corsi e di vite da non vivere, camminare là per offrirsi rischiando la pelle — la velocità dell’auto fraziona i desideri.

Si vedono facce i cui occhi non accordano lo sguardo che alla vergogna altrui e la sua segreta fierezza ai plissé appiattati dell’iride nell’orbita dell’azzardo.

Vegliano manichini senza braccia, bianchi di un silenzio troppo plastico. Freddi, i loro sogni di cose muoiono al fondo delle boutique, dietro galleggiano su un po’ d’acqua i ritagli del giorno, tutti i capelli tagliati, aggiunte senza più testa.

Là dove più lontano i neon mandano una luce intermittente, dopo aver abbassato il cappuccio, qualcuno entra con il cuore spento.

Ngola di notte (il suo corpo sottratto)

traduzione dal francese di rosaturca

 

 

 

 

 

 

Volo lento

 

 

 

 

 

 

 

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Quasi le sei, del ciclamino i nidi nel crepuscolo stingono l’aria della sera profumando sul cortile una dolcezza di boschi, della luce apprendo la parola che mi fa restare, quando invece saprei l’ora di andare : a coltivare la forma del mondo, e accettare in quella di consumare la mia.

 

* * *

 

Ieri sera nella pratica di tiro abbiamo provato il mio arco, abbiamo guardato come s’involano le frecce, ne abbiamo provate diverse. Lo scopo sarebbe quello di trovare la freccia giusta nell’equilibrio fra l’arco e l’arciere, si potrebbe anche dire la freccia adatta per mettere l’arco e l’arciere nella giusta relazione — quella più consona, più naturale ?

Io non ho l’occhio per seguire la traiettoria di questo corpo sottile che scocco dalla mia corda ; non ho l’orecchio per sentire se l’arco mi vibra appena nella mano dal rumore che fa dopo il rilascio della corda. Più grossolanamente, posso avvertire del volo soltanto la spinta che alla freccia s’imprime dalla sua coda, l’eco di quella spinta che resta attaccata un istante di più sulla mia corda, vibrandomi nelle spalle fino al centro del petto ; posso avere l’orecchio di quella spinta come conclude la sua corsa nell’impatto sul bersaglio.

Verso la fine della pratica abbiamo raggiunto un’opinione di massima sulla freccia da scegliere, tanto per incominciare ; poi Andrea mi propone di tirare con una freccia di legno, me ne offre una delle sue, normalmente tiriamo con frecce in carbonio. Ho scoccato allora la freccia e subito ho avuto l’impressione fisica prolungata di tutta l’ampiezza della distanza che c’era fra me e il bersaglio, l’aria che invece di essere solcata da un tiro secco slanciato al limite del suo sforzo e riverberante nel suono emesso dall’arco, l’aria si riempiva ora di una palpabile plasticità che era la forma del volo lento della freccia. Ho saputo allora che non è tutto sentirmi nel cerchio fisico e magico dell’arco fatto apposta per me mentre si tende, che ci si può proiettare anche fuori dal cerchio.

E’ stato così che ho saputo in modo definitivo cosa vado cercando, l’ho saputo in un istante delle mie membra, ne ho serbato vivida impressione nel mio spirito.

14.II.2020
 

 

 

 

 

 

 

 

Amo uscire nella sera

 

 

 

 

 

 

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Via degli orefici, nel cuore della città antica, fra le due torri che affacciano sul decumano massimo e l’area del mercato medievale. L’aria corre leggera e fresca, gli alberi in incipiente fioritura. Amo uscire di casa da sola nella sera poco prima dell’ora di cena, mentre piuttosto si rincasa io cammino controcorrente, faccio un giro fino nei dintorni della piazza Maggiore, appena in tempo per comprare il pane e forse qualcos’altro da aggiungere alla nostra cena che ho cucinato prima di uscire.

Fuori dal Mercato di Mezzo una donna mi intercetta con lo sguardo, mi ha guardata con un lampo negli occhi come se mi riconoscesse – sarà per il basco e il lungo cappotto nero, tenuta da outsider ormai… – mi viene incontro sorridendo, mi dice di essere francese, insieme alla figlia e al marito stanno cercando un posto dove mangiare spaghetti alla bolognese — Non spaghetti, dico io, ma tagliatelle alla bolognese ! E li accompagno sotto le due torri nel posto migliore che c’è. Lungo il breve tragitto la donna francese ed io conversiamo in italiano, il marito mi cammina alle spalle con passettini a causa del poco spazio fra noi e della sua mole gigantesca rispetto alla mia.

Rimango per un poco sotto le torri, le spalle appoggiate al pilastro del portico, fra via Rizzoli e piazza della Mercanzia, un numero considerevole di auto passa di qua nonostante l’ingresso a traffico limitato, l’aria non è delle più respirabili…ma come staccarsi dall’incanto di questa pietra manufatta e tuttavia pur sempre selvaggia nella sua grana, nel suo adombrarsi di bruno, di questo spazio architetto e nello stesso tempo da forra di collina, e tutto mentre si sfuma nell’oscurità fino quasi a scomparire dalla vista ( i francesi non si erano accorti delle torri ) .

Amo uscire la sera prima di cena, quando è già tardi, troppo tardi per andare dovunque, e ancora troppo presto per la notte e la sua liberata gratuità.

11.II.2020
 

 

 

 

 

Notturno

 

 

 

 

 

 

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Posso ancora chiamarti Artemide stanotte sul vivaro, e risentire la tua frescura silvestre soffiarmi ai fianchi, e anche più su, fino a un passo dal cuore.

 

 

Ondeggiava piegando le ginocchia, danzando sul posto al suono che da un telefono cellulare gli entrava nella testa, si può distinguere la testa che oscilla, le braccia distese come due ali che planano nell’aria sulla piazza buia. E si sente ripetere parole a voce alta, da solo, si sente cantare in spagnolo sopra un ritmo latino.

E poi si sa, stanotte nella piazza non è solo come sembra il giovane straniero, e non è ubriaco, nè pazzo.

8.II.2020
 

 

 

 

 

Una selvaggia felicità

 

 

 

 

 

 

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Non c’è verso di svuotare l’acquaio, non si riesce a tenere la cucina pulita e in ordine mai più. Si fa da mangiare con costanza, a tutte le ore è possibile consumare una pietanza cucinata al momento.

Per fortuna mi sveglia la tua telefonata. L’una del pomeriggio, tu non approvi. Io bevo tutto il caffé nella napoletana, faccio per abitudine una colazione quasi di tipo continentale. Hai detto al telefono che fuori è una splendida giornata, è vero, fuori dalla finestra splende il sole, ma non hai detto il tormento inflitto dal vento alla grotta del cielo in cui l’azzurro non ha più ricetto, e i colpi battono forte e si sbianca la luce e m’inquietano invisibili questi corpi d’arie palpabili in corsa da cui esala inedita una selvaggia felicità.

Confusa al vento vaga pure una voce di bambina, in forma di canto piano.

Dimora nella notte una gratuità smisurata. E una incondizionata libertà che tutto accetta, tutto ama. Partire alla volta del senso con meno di questo non si può.

 
5.II.2020
 

 

 

 

 

Regine

 

 

 

 

 

Mi ritrovo stanotte sulla via dei miei pensieri ; forse perché mi sveglio tardi nel giorno, oppure per altre necessità del caso, che ignoro, io sono e so chi sono soltanto adesso

e l’esitare

e il distaccarmi lenta

e l’altrove nei gesti

 
4.II.2020
 

 

 

« Mi è tornata alla mente una vignetta che Amalia aveva fatto tempo fa, aveva disegnato una donna che diceva — Fatevi regine della vostra vita. In quel treno, in quell’alienante Milano eravamo così ” regine della nostra vita “, grazie anche al sorriso di Maria, e non ci riconoscevamo in quello che gli altri pensavano di noi. Noi eravamo noi, e loro, ” loro “. E basta. »

 

Fabrizia Ramondino, Passaggio a Trieste
Torino 2000. EINAUDI
 

 

 

 

 

Misconoscimento

 

 

 

 

 

 

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Naturale forse questo scoramento in cui si scivola al fondo della sera,

santo forse
pure questo mis — conoscimento
in
cui
si avverte intorno a sé di restare
abbandonata.

 
2.II.2020