IL VIAGGIO

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San Martino divide il suo mantello per coprire un povero, particolare
( immagine web )

 

 

 

 

 

 

       Scendevamo al piano di sotto per pranzare, si attraversava il bar della locanda sempre affollato di uomini. E occhi. Uno spessore fitto di sguardi. Una ripetizione estenuata di pause. Il moto della parola mille volte interdetta nell’accenno di un sorriso.

La padrona è dietro al bar, saluta, vivace. Noi chiediamo se c’è un tavolo per due. Muoviamo verso la saletta apparecchiata. La parola riprende, a ondate, cresce ancora, ci allontana, si richiude già alle spalle. Noi scivoliamo sulle frasi di una lingua che non comprendiamo, restiamo soli, attraversiamo quello spazio di parole e siamo soli, noi che siamo già soltanto questi corpi, che portiamo come oggetti visibili di una storia che si è fatta lontano da qui. L’evidenza materiale che racconta il nostro viaggio ora attraversa la sala.

       Sediamo, uno di fronte all’altra. Cresce dal nostro tavolo la paura di esistere. E poi la muta solitudine alla quale siamo abituati fra noi, si fende in questo luogo, diventa sociale, una marea di toni confusi cresce dal nostro tavolo, cresce da non vederti, da non lasciare spazio per vederci, sale fino a confondersi nel mormorio assordante che occupa la sala. A tratti, ci cancella.

        Le ordinazioni erano state rapide e i piatti serviti subito in tavola. Si fa più lenta la parola, per un poco ci assenta. Ognuno di noi due guarda, ci guardiamo. Guardiamo. Sorridiamo. Ci scusiamo così della distanza. E poi sono finite, le parole. Finite. Lentamente sul vino il tempo era scivolato. Sono gli ultimi gesti : il caffè, il conto, lo squillo innaturale della cassa dietro alle nostre andature più gravi sui gradini di legno che risaliamo.
La stanza che oscuriamo.

       Tempo senza valore. Ancora giorno, per noi non vale più. Abbiamo inaridito il giorno cedendo all’ebbrezza, i nostri corpi si ritraggono, anonimi, confusi nel calore sazio della carne. Vengono adesso i sogni.

 

senza immagini eppure sono cielo mare sempreverde la preziosità per noi di un ciglio d’incolti, in tutto il bianco di quel luogo di luce, in quell’abisso lampante e mortale

 

       Separato, il cuore non parla. L’intimità del riposo nel mondo, in frantumi. Respiriamo in un sonno sordido di vuoto.
Poi. Uno spiraglio di luce s’incunea nella stanza chiusa, dura come roccia, una cortina di pulviscolo dorato restituisce a questo straniamento ancora un po’ di umanità. Gli occhi. Cercano intorno. Fuori. Seduta nel riverbero dell’ora, invitta di silenzi, aspetta, toccata mai, di sotto palpebre richiuse mi guarda

 

nei campi intorno alla stanza l’orizzonte al crepuscolo si rispecchiava sui canali

 

      aspetta, nulla è cambiato, o forse l’inizio non è ancora incominciato
e
resta
ancora
cielo fra noi.

 

Latisana, novembre 1993

 

 

 
Partiti per l’incognita di un lavoro e di una vita che si farà. Smarriti in strade estranee, paesaggi bui e sconosciuti, giunti nel paese e soccorsi da luci che presto si riveleranno festa di un giorno. Ho paura, l’angoscia mi assale, subito vorrei tornare indietro ma questa volta ci sei tu. Con voce sicura ti imponi, mi calmi e mi avvolgi per un sonno preparatore ad una nuova vita, che è già cominciata. Domani il mio primo giorno di lavoro, e troverò la neve, che per noi è come il mare per chi viene dai monti.

Giorgio
 

 

 

 

 

 

 

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